Il sapore greve dell’ineluttabilità / 31 Agosto 2017 in A Ciambra
Il tema scelto dal giovane Carpignano per il suo secondo lungometraggio è complesso e di difficile argomentazione, eppure il film riesce nel palese intento di mostrare con una sorta di sconcertante obiettività cose che è sconveniente rendere note ai più ma che è impossibile far finta che non esistano.
Non un documentario, ma un vero e proprio racconto di viscontiana ispirazione, A Ciambra racconta la quotidianità del quattordicenne Pio e della sua famiglia rom all’interno della comunità stanziale della Ciambra, presso la Marina di Gioia Tauro, in Calabria.
Quello che Carpignano mostra senza troppe remore è un mondo caotico e sovraffollato fortemente legato a un sistema gerarchico non scritto in cui i concetti di famiglia e memoria fungono da perno e collante, dando vita a una realtà altra, in cui il tempo è sospeso (i bambini sono adulti in miniatura e i vecchi sono bambini avvizziti: di alcuno si comprende realmente l’età) e dove vigono usi, leggi e codici radicatissimi e molto lontani dal vivere e sentire comune.
Ciò che viene mostrato di questo contesto può apparire disturbante, illogico o esotico: il fatto è che tutto ciò esiste realmente, si tratta di una forma di cultura, intesa nel senso antropologico del termine, e come tale ha una sua ragion d’essere.
Come un’entità incorporea partecipe ma incapace di intromettersi, consigliando o giudicando il protagonista, la macchina da presa mobilissima di Carpignano segue e accompagna l’indomito Pio in ogni singola scena del film, come se fosse appoggiata sulla sua spalla, mostrando al pubblico un mondo intrigante benché per lunghi tratti repulsivo. In questo luogo, fortemente circoscritto ma non segnato da confini propriamente detti (ché questi ucciderebbero Pio, poiché il ragazzino è claustrofobico), si consumano riti sociali primordiali, in cui il valore del vincolo di sangue e una sorta di istinto millenario votato al furto travalicano qualsiasi forma di moralità conosciuta.
Il fascino di A Ciambra, quindi, sta essenzialmente in questi tre elementi: la rappresentazione naturalista, à la Dardenne, del contesto; l’abilità tecnica di Carpignano, capace di restare perennemente incollato agli attori senza che essi, apparentemente, ne risentano in alcuna maniera, che si concretizza in un pedinamento insistente ed efficace tipicamente neorealista e in una sensibilità estetica tale da rendere attraente qualsiasi cosa, perfino la spazzatura; il fascino di una cultura incomprensibile e diversa che disconosce il significato del compromesso.
Un racconto di formazione duro, concreto, che guarda in faccia gli ultimi, dandogli dignità, e lascia in bocca il sapore greve dell’ineluttabilità.

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