Il potere del cane

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Il potere del cane

Dall'omonimo romanzo di Thomas Savage. Montana. Phil Burbank, allevatore e fattore, ispira paura e timore reverenziale nelle persone che lo circondano. Quando il fratello fa ritorno a casa, sposato con una donna che ha già un figlio, Phil inizia a tormentare i nuovi arrivati, ma, inaspettatamente, nella sua vita sembra affacciarsi qualcosa che somiglia all'amore.
Stefania ha scritto questa trama

Titolo Originale: The Power of the Dog
Attori principali: Benedict Cumberbatch, Kodi Smit-McPhee, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Thomasin McKenzie, Geneviève Lemon, Keith Carradine, Frances Conroy, Kenneth Radley, Sean Keenan, George Mason, Ramontay McConnell, David Denis, Cohen Holloway, Max Mata, Josh Owen, Alistair Sewell, Eddie Campbell, Alice Englert, Bryony Skillington, Jacque Drew, Yvette Parsons, Aislinn Furlong, Daniel Cleary, Richard Falkner, Tatum Warren-Ngata, Yvette Reid, Alice May Connolly, Stephen Lovatt, Stephen Bain, Ella Hope-Higginson, Piimio Mei, Edith Poor, Vadim Ledogorov, Julie Forsyth, Peter Carroll, Alison Bruce, Karl Willetts, David T. Lim, Adam Beach, Maeson Stone Skuggedal, Ian Harcourt, Mostra tutti

Regia: Jane Campion
Sceneggiatura/Autore: Jane Campion
Colonna sonora: Jonny Greenwood
Fotografia: Ari Wegner
Costumi: Kirsty Cameron, Alice Baker
Produttore: Tanya Seghatchian, Iain Canning, Emile Sherman, John Woodward, Rose Garnett, Simon Gillis, Roger Frappier, Jane Campion
Produzione: Gran Bretagna
Genere: Drammatico
Durata: 126 minuti

Dove vedere in streaming Il potere del cane

Qualità e difetti / 27 Dicembre 2023 in Il potere del cane

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Non è raro che un film alterni grandi qualità a difetti marchiani. Il potere del cane è uno di questi film. Tra i punti di forza c’è innanzitutto la grande interpretazione di Benedict Cumberbatch, che dimostra qui una versatilità impressionante, calandosi in un personaggio che sembrerebbe lontano da quelli suoi abituali. C’è poi il rapporto tra Phil (Cumberbatch) e Peter (Kodi Smit-McPhee), che appare all’inizio come un molto convenzionale rapporto tra bullo e bullizzato, ma che a un certo punto comincia a trasformarsi in qualcosa d’altro – qui la regia scopre forse prematuramente le carte nell’episodio del primo coniglio, facendoci capire che Peter non è esattamente come appare. Ci sono un’ambiguità e una sottigliezza estreme in quella che per molti versi appare come una seduzione del ragazzo nei confronti dell’uomo adulto, delle cui debolezze è oramai pienamente cosciente: il rapporto rimane ambiguo sino alla fine, con Phil che oscilla involontariamente tra l’antico disprezzo e una riluttante ammirazione e – alla fine – un’incipiente attrazione; e intanto i gesti di Peter, anche minimi, come l’indifferenza ostentata per gli insulti che gli lanciano i lavoratori mentre va ad esaminare un nido d’uccello, rivelano a posteriori un calcolo glaciale e risoluto.

E poi ci sono i difetti. Mi pare innanzitutto che ci sia qualcosa di troppo convenzionale nel ricondurre l’odio del protagonista Phil per tutto ciò che appare debole o poco virile o troppo femminile a un’omosessualità repressa. Anche l’attaccamento edipico che mi sembra presente (se non interpreto male) tra Peter e la madre non è originalissimo, benché serva da motivazione alle azioni estreme del ragazzo. Il film poi non approfondisce il passato da studente brillante di Phil (c’è giusto un’osservazione isolata del governatore), e questo toglie profondità al personaggio; rimane solo il suo orecchio musicale a indicare che la rozzezza è solo una facciata.

Ma il principale punto debole del film mi pare stia nella figura del fratello di Phil, George, che Jesse Plemons e la regia rendono quasi come un ebete non del tutto cosciente del dramma che si svolge sotto i suoi occhi, tanto stordito da essere incapace persino di sottrarre la moglie al terribile imbarazzo della serata con il governatore. Il personaggio diventa in questo modo irritante, distaccato com’è dall’azione principale, mentre il legame con Phil, di cui pure si percepisce la gelosia nei confronti della cognata, risulta di conseguenza quasi inspiegabile.

Jane Campion si fa in parte perdonare queste ed altre mancanze con belle inquadrature, spesso incorniciate virtuosisticamente dalle finestre delle case. Bella anche la colonna sonora e i paesaggi della Nuova Zelanda, che interpreta convincentemente le montagne e le pianure del Montana.

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Male sviluppato… / 18 Maggio 2023 in Il potere del cane

Per gli occhi è un piacere, ottima regia e ottima fotografia.
Ma la storia è troppo lenta, dispersiva, non è incalzante e dopo poco inizia a annoiare e non aspetti altro che finisca.
Peccato.
4/10

Inespresso / 5 Dicembre 2021 in Il potere del cane

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Riflessioni sparse)

Guardavo il nuovo film di Jane Campion, Il potere del cane, il primo della regista neozelandese, 12 anni dopo Bright Star (2009), e pensavo continuamente a Il petroliere di Paul Thomas Anderson (2007), cogliendo alcune assonanze tra i due lungometraggi.
Nel frattempo, mi sentivo anche un po’ frustrata -da spettatrice- per gli intenti trattenuti.

Il personaggio interpretato, qui, da Benedict Cumberbatch ha qualche corrispondenza con quello portato in scena, là, da Daniel Day Lewis (il caratteraccio, in primis). In entrambi i film, c’è una natura silenziosa, imponente e pervasiva che osserva e, in fondo, condiziona i personaggi (p.s.: il Montana della Campion, in realtà, è la “sua” Nuova Zelanda). Il periodo storico è quasi lo stesso (qui, 1925; là, la storia si conclude alla fine degli anni Venti). Ci sono ossessioni, ricordi diventati mitologia personale e c’è anche la presenza dell’alcolismo.
I due film usano come sfondo altrettante colonne portanti dell’economia americana tradizionale: l’allevamento e l’industria mineraria.
Entrambe le colonne sonore sono firmate da Jonny Greenwood dei Radiohead.
Per giocajué un altro pé, pure il minutaggio non è indifferente, in tutti e due i casi (126 vs 158 minuti).

Mi è sembrato che, qui, la Campion, premiata con il Leone d’Argento a Venezia 2021 per la regia, abbia raccontato una storia caratterizzata da una forte tensione erotica implicita, tenendo il freno a mano tirato, risultando didascalica in diversi passaggi e, all’opposto, lasciando inespressi alcuni passaggi narrativi e incomplete diverse caratterizzazioni.

Il titolo del film arriva da un salmo biblico: “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”.
Apprendo in Rete, da una vecchia intervista de Il Mucchio Selvaggio allo scrittore Don Winslow (che, nel 2005, ha pubblicato un romanzo, che non c’entra niente con questo film, ma che ha lo stesso titolo!), che, con “il potere del cane”, si intende “la capacità e la consapevolezza dei ricchi e dei potenti di poter opprimere i poveri e coloro che non hanno nessun tipo di potere”.
Ma questo sottotesto epico è una pratica che viene disbrigata molto velocemente nel finale, senza che un simile potente riferimento religioso emerga nel corso del racconto (anzi, quella del film è -letteralmente- una terra senza Dio: l’unica divinità del luogo sembra essere il Bronco Harry continuamente evocato da molti).

Non ho letto il romanzo omonimo di Thomas Savage del 1967 da cui è tratto il film, quindi non so quanto certe scelte siano state fatte per mantenere un’aderenza (o per discostarsi, all’opposto) alla matrice letteraria.
Certo è che la “pudicizia” con cui la Campion affronta i turbamenti intimi (non solo sessuali) del Phil Burbank di Cumberbatch rendono molto piatto un personaggio potenzialmente assai interessante (acculturato e affascinante ma scientificamente rozzo, sgradevole, greve, psicologicamente violento, sicuramente frustrato, incapace di comprendersi e accettarsi fino in fondo, un po’ per retaggio culturale e ambientale, un po’ per paura).
Altrettanto mal espressa (secondo me) risulta la fragile vedova Gordon di Kirsten Dunst.

Il modo in cui Phil capitola simbolicamente davanti all’efebo che ha in casa, trasformando la sua attrazione in una strana forma di amicizia (a senso unico), mi è sembrato troppo repentino.
Certo è che, nei primi minuti di film, ho intravisto nei suoi gesti una violenza che, con difficoltà, avrei sostenuto più a lungo di così. Mi riferisco al modo disturbante, molto dottrinale ma simbolicamente efficace, con cui il personaggio di Cumberbatch vìola uno dei fiori di carta realizzati dal figlio di Rose, insistendo con un dito su quelli che, nella realtà, avrebbero potuto essere gli stami e il pistillo (ovvero, gli organi riproduttivi di un fiore).

Per i miei gusti, il finale thriller è la cosa migliore del film, dal punto di vista narrativo, perché stabilisce (finalmente e in maniera definitiva) i ruoli dei personaggi in gioco.
Phil è un ingenuo romantico (segnato, nel bene e nel male, dal rapporto con un uomo, il mitico Bronco Harry, di cui cerca di ricordare ancora l’odore sulla propria pelle, ricreando -ed evitando di eliminare con l’igiene personale- quello di animale, sudore e polvere che, molto probabilmente, B.H. aveva in vita), Rose è una manipolatrice (sono abbastanza certa che, per “necessità”, sia stata lei a uccidere il primo marito, spacciandone la morte per suicidio), il figlio Peter (Kodi Smit-McPhee) è un lucido psicopatico; George (Jesse Plemons) è metaforicamente cieco.

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