Recensione su The Conjuring - Il caso Enfield

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The Conjuring - Il caso Enfield
Regia:

Un accozzame posticcio e “mostruoso” / 25 Giugno 2016 in The Conjuring - Il caso Enfield

James Wan fa quello che non andrebbe mai fatto: girare un capitolo 2 di un film horror riuscito pienamente come è stato “L’evocazione – The conjuring”, e rovinarlo, così da rovinarne la nostra memoria, e rovinarsi la reputazione. “The conjuring – Il caso Enfield” è un film pessimo, visto da una prospettiva generale, ma che lo diventa maggiormente se inserito sotto la voce di “genere horror”. Il perché è semplicissimo: non è un horror, se non nelle regole del gioco peraltro stantie, ma che restano tali se non sono applicate ad una trama, se non originale – molto simile nei vari sviluppi al precedente capitolo – quanto almeno valida. Se vogliamo indirizzarlo per forza verso un genere di appartenenza, ci possiamo avvicinare ad un film di supereroi, con moderni ma goffi ghostbuster, o un film fantastico-grottesto mascherato da thriller-horror; ma la gravità maggiore è che a volte dia la sensazione di essere tutt’altro prodotto: una specie di videogioco. Un assemblamento mal riuscito e fastidioso, che inevitabilmente non trasmette alcun interesse, e men che meno fa sobbalzare, o smuove emozioni, né su un piano puramente dinamico di visione, né più intrinsecamente contenutistico e riflessivo. Uno sbrodolamento di più di due ore senza né capo, né coda, senza un centro di coerenza realizzativa, che ha solo il pregio di far emergere e svettare, appunto, il suo predecessore, che era sì opera canonica nel genere, ma raffinata, incarnata nella modernità, e mixata con equilibrio in tutte le sue componenti horror, ma soprattutto cinematografiche.
Già da prologo iniziale che si riallaccia al massacro della famiglia di Amityville, dal quale molti film horror o simili hanno pescato materiale per le loro storie, e dai primi minuti effettivi del nuovo caso di possessione, ad Enfield appunto, in Inghilterra, la macchina da presa di James Wan non sta ferma un attimo, e tra panoramiche, carrelli, e piano sequenza, ci porta dentro ad un esercizio di stile e di esibizione fine a se stessa che sembra egli stesso dimenticarsi miseramente cosa debba filmare o a quale tipo di film appartenga la sua pellicola. Pur sapendo in partenza che dal regista malesiano non ci si aspetta chissà quali stravolgimenti, rappresentante di una metodologia horror tipicamente conservatoria e dal canovaccio “usurato”, ma tuttavia affidabile che pesca anche a piene mani nella tradizione dei gloriosi anni ’70, ma che questo rinnovamento almeno per quest’anno spetti su tutti a quel “It follows” che vedremo e apprezzeremo tra poco anche nelle nostre sale, Wan perde i fili della sua opera maldestramente e “The conjuring – Il caso Enfield” naviga a vista in percorsi narrativi altri, in tempi dilatati all’inverosimile, in ritmi non appropriati che tendono a far scemare l’attenzione invece che tenerla desta, in ripetizioni e ridondanze sterili, in banalità di sceneggiatura e di dialogo disarmanti, nella creazione di un terrore che non si può definire tale, perché non incute paura (e il paradosso è bel che servito), ma che si incastra in logiche di film diverso, come regole di un gioco applicate ad un altro gioco, e giocato (scusate il “gioco” di parole) ad un livello di interazione con il pubblico che è orizzontale, piatto, e non investe trasversalmente più piani narrativi o stilistici come un buon film horror richiede per attuare i suoi picchi di suspense e di spavento e di costante e soffusa inquietudine.
Insomma questa nuova avventura dei coniugi Warren, interpretati da Patrick Wilson e Vera Farmiga, oscilla tra il prodotto di documentazione di un fatto realmente accaduto (e la stessa mancanza di titoli di testa conferma l’intenzione di renderlo più verosimile possibile) e il grottesco, ma che dentro una confezione di tutt’altro genere ne esce fuori pieno di momenti goffi e al limite del trash, di cliché noti e stranoti, di situazioni paradossali: quando compare l’Uomo Storto ci chiediamo se stiamo assistendo ad un film di Tim Burton (solo per il personaggio!). E il nostro interesse verso tanta piattezza, insita nella storia e nello stile, deve quindi fermarsi ad un ramaiolo piegato, e quindi al fatto che la questione si sposti tutta esclusivamente sulla veridicità o meno dei fenomeni paranormali e demoniaci di casa Enfield: se Janet, la bambina posseduta, stia montando tutto con la sua fantasia, o se il cambiamento di voce, le lievitazioni, gli atteggiamenti isterici, le convulsioni, la schiuma dalla bocca, oggetti che si muovono da soli, e tanti altri stereotipi visti e rivisti, siano realmente quello che sono. La conclusione è ovvia e la conosciamo già, come il fatto che tutto vada per il meglio in questa fiaba dei buoni sentimenti, dove l’estrema, commovente e frivola (per come trattata) solidarietà verso la famiglia Hodgson dimostrata dai “supereroi” Warren non ci appartiene granché, perché avremmo voluto abbondare quella casa da un po’, almeno dall’ennesima inquadratura sempre uguale che Wan ci fa del suo esterno, o dall’ennesima chiacchierata con lo spirito di un vecchietto simpatico di 72 anni, con il quale ci si potrebbe convivere tranquillamente visto quanto sia innocuo: che poi sia solo uno spirito facciata che nasconda il “mostro finale” del videogioco diretto da Wan, ossia la suora demoniaca, conta relativamente, perché anche questo demone dopo essersi nascosto o rivelato mediante i soliti standard, sgonfia il suo terrore inesorabilmente man mano che il film procede, tanto da diventare la parodia di se stesso, e il film, di conseguenza, allo stesso modo. Se Lorraine invece di chiamarlo per nome (l’unico modo per distruggerlo) avrebbe ingaggiato con lui un imbarazzato combattimento simile a quello della protagonista di “Scary Movie 3” con la Samara di “The Ring” parodiata di quel film, non avrebbe affatto stonato. O ancora: se da una di quelle belle casette a schiera inglesi fosse scappato ad un certo punto Harry Potter a lanciare qualche “avada kedavra” per mettere a tacere tutto il baccano, anche mediatico, nemmeno. Anzi forse avrebbero dato senso ad un accozzame così posticcio e “mostruoso”: diventando la cosa più horror di un film non horror.

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