Recensione su Reality

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8 Ottobre 2012

Ho apprezzato questo film per la sua messa in scena iper-reale: una bella fotografia, con colori saturi e chiassosi e dettagli epidermici vivissimi, bella scenografia e -pressoché inutile dirlo- ottime facce.
Aniello Arena, la cui fisionomia è erede diretta di quella del giovane Stallone, ha un viso magnifico, specchio perfetto del carattere del suo personaggio, sognante e, a suo modo, ingenuo. Tutti i comprimari ed i caratteristi di contorno, poi, con corpi e tratti somatici volutamente “carichi”, sono degni di nota: da Nando Paone a Nunzia Schiano, passando per la convincentissima Loredana Simioli, perfino i bambini sono a loro agio in questa impietosa rappresentazione di una parte del vivere comune.

Detto questo, mi preme dire che, nonostante le grandi premesse ed un buon svolgimento, Reality non è un’epifania cinematografica: il delirio del protagonista, Luciano, scorre pesantemente e genera pura angoscia nello spettatore. Fin dove potrà spingerlo la sua visione distorta della realtà? Dalla metà in poi, la pellicola rallenta il ritmo ed insiste più volte su concetti assodati.

Quel che più mi ha inquietata è che, pur essendo evidente fin dall’inizio quanto Luciano sia affascinato dalla notorietà (ridicola) dei piccoli divi televisivi, egli viene spinto al passo “estremo” dalla famiglia e, particolare ancor più agghiacciante, dalle figlie, neppure adolescenti.
La base è marcia, signori miei. In quelle menti impuberi, germoglia senza freni un’ambizione effimera ancor più vacua di quella di Luciano. Ed è stato questo il vero dramma, per me.

Luciano è un uomo disilluso che, a differenza dei suoi parenti, però, ha conquistato una certa sicurezza personale: pur vivendo nello stesso, scalcinato palazzo della sua famiglia, il suo appartamento, a differenza degli altri, è dignitoso, ordinato, ben arredato. Non che il resto dei parenti non aspiri ad un presente dignitoso, ci mancherebbe, ma -come dire- si accontenta di galleggiare, campando di suggestioni in prestito, come quella della desiderata notorietà di Luciano.

La follia del protagonista, in definitiva, è stolida, poiché si basa su un’aspirazione vacua, priva di valore (se non quello economico): è emblematica la sua considerazione: “Voglio avere il problema di gestire il denaro”, dichiara. La sua vita basata sulla fatica e sulla precarietà reclama un guadagno finalmente immediato e privo di incertezze, il che non è condannabile, in effetti. Ma si tratta di un desiderio esacerbato, inquinato, e lo sguardo di Luciano ammaliato dallo schermo televisivo su cui scorrono immagini di grande pochezza la dice lunga su quanto il suo sogno originario sia ormai corrotto.

In definitiva, pur trattando con mestiere l’argomento, Garrone è, qui, molto lontano dai grandi risultati formali de L’imbalsamatore: non posso negare, però, che questa sia un’opera comunque interessante, se non dal punto di vista narrativo, un po’ claudicante, certamente da quello estetico: oltre alla già citata fotografia, concorre all’ottimo effetto “sensoriale” anche il commento musicale di Alexandre Desplat.

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