Recensione su Animali notturni

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Animali notturni
Regia:

Algida vendetta / 20 Novembre 2016 in Animali notturni

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Lunghe riflessioni sparse)

Come già era accaduto per il suo esordio cinematografico nelle vesti di regista, per il suo secondo lungometraggio Tom Ford si è affidato ancora ad una matrice letteraria (dopo A Single Man di Isherwood, questa volta, si tratta di Tony & Susan di Austin Wright): Animali notturni, quindi, è un film (1) basato su un libro (2) che parla di un libro (3), in cui il dolore nato nell’ambito della realtà n.2 (fittizia) si sublima e trasfigura all’interno di un ulteriore livello narrativo, la realtà n.3, intenzionato a sconvolgere tanto gli spettatori della realtà n.1 quanto i lettori della n.2.
Quindi, non so a quale degli autori (Wright? Ford, che ha firmato in solitaria la sceneggiatura? Addirittura, Edward, l’ex-marito scrittore?) imputare quello che mi è parso il difetto maggiore del film: la pellicola di Ford sembra pervasa da una curiosa ingenuità, da una sorta di visione astratta degli eventi che l’ha mantenuta costantemente distante dalle mie corde. Non si tratta di una estetizzazione degli elementi del racconto in grado di renderli alieni ed irreali (caratteristica tipica del più recente Refn, per esempio), un tratto che, comunque, avrei ritenuto affine alle propensioni formali del regista.
L’impressione che ne ho avuto, forse a torto, è che la depravazione descritta in questo film sembra nascere dalla fantasia di una persona che non ha mai avuto a che fare in alcuna maniera con essa: la descrizione dell’atto violento che condiziona l’intero film (l’aggressione alla famigliola in auto) è una idealizzazione.
Il gusto per la vendetta che sottende il film si trasfigura (come si è detto) in un racconto (quello narrato nel libro inviato da Edward a Susan) che, nonostante abbondi di eppur plausibile violenza e ignoranza, sembra caratterizzata da una rappresentazione che mostra i suoi stessi limiti.
Benché non citato, ho l’impressione che il modello narrativo a cui Ford ha guardato sia stato Cormac McCarthy, forse -addirittura- Il cane di paglia di Peckinpah, ma di questi non sembra aver colto nessuno degli elementi nichilisti, animaleschi (a dispetto del titolo), apocalittici e disturbanti.

A latere, il comportamento dei vari personaggi è, spesso, privo di logica: tale assenza di razionalità non è necessariamente legata alla concitazione del momento, ma è punteggiata da più o meno percettibili svarioni che non sono stata propensa a ricondurre ad una semplice sospensione della realtà.

Susan è sconvolta dalla lettura del romanzo di Edward non per via dei contenuti che lo caratterizzano, ma perché legge tra le righe il livore che l’ex-marito prova per lei, e arriva addirittura a sovrapporre il volto dell’ex-marito e di sua figlia a quelli dei personaggi del libro. Curiosamente, non si sostituisce alla moglie di Edward, limitandosi a immaginare che la donna le somigli molto.
Ingenuamente, nonostante ciò, la gelida Susan è seriamente convinta che un incontro riparatore, dopo 19 anni, possa contribuire a placare definitivamente questa ira silenziosa, a rimettere in sesto ciò che, tra loro, è rimasto in sospeso per volontà di entrambe le parti e che questo scarto nella propria vita possa servire a fare di lei la brava persona che non è mai riuscita ad essere davvero, dando un nuovo senso ad un’esistenza non appagante.
Il messaggio del film di Ford, quindi, è chiaro, lampante: a dispetto della mitezza e della sensibilità del soggetto che architetta la vendetta, il perdono non è praticabile. Siamo tutti predatori pronti a mordere alla giugulare, come una volpe che s’intrufola nottetempo in un pollaio: deve solo presentarsi l’occasione per poterlo fare, con il maggior spargimento di sangue (metaforico) possibile.

Detto questo, Ford, il cui spiccato e conclamato senso estetico non prende mai davvero il sopravvento sulla materia narrativa, rimanendo pazientemente e misuratamente ai margini della vicenda, delineandola senza soffocarla, non ha saputo turbarmi o conquistarmi particolarmente, se non in due precise occasioni.
La prima è rappresentata dai lunghi e affascinanti, seppur grotteschi, titoli di apertura accompagnati dagli splendidi archi assemblati da Abel Korzeniowski: in essa, al ralenti, compaiono corpi e volti corrotti da deformità “fisiologiche” accentuate in maniera inesorabile da improbabili balletti. Si tratta di forme fisiche poste in aperta contrapposizione rispetto a quelle dei protagonisti del film: perfino gli aggressori degli Hastings hanno bei corpi, bei tratti fisici. La bellezza è effimera e oggettiva, questo è chiaro, e non corrisponde affatto con la bontà d’animo: anche il volto, intensissimo, della brava Amy Adams sottende questa legge, scandagliato com’è con freddezza da Ford in lunghi primi piani, mostrato impercettibilmente più giovane nei flashback che riguardano Susan.
La seconda corrisponde a un singolo frame, quello in cui la mano di Ray (Aaron Johnson) tamburella sul tetto della macchina degli Hastings: sono cinque dita uscite dritte dall’inferno, sporche, lascive, con unghie lunghe e luride, esaltate dalla presenza di un anello vistoso e pacchiano, illuminate da una in-credibile luce lunare. Un dettaglio del genere è capace di aprire indicibili abissi di fantasia e di suggestione, ma, incredibilmente, Ford non ha sfruttato il potere evocativo di questo e di altri dettagli messi in scena, imbastendo, alla fin fine, un racconto abbastanza convenzionale (se non fosse per la celebrazione della vendetta silenziosa), all’interno di una cornice decisamente algida (il parallelismo con la freddezza di Susan e degli ambienti in cui essa vive e lavora è fin troppo eloquente).

A mio parere, pur dirigendo un interessante (oimemì) neo-noir, Ford non ha saputo (o voluto) rileggere né Hitchcock, né tantomeno Lynch (termini di paragone a cui il suo lavoro, ho letto, è stato accostato): non si tratta di una sorta di divina irraggiungibilità degli esempi, ma di un diverso binario percorso.
Benché anch’egli abbia tentato di addentrarsi nei perigliosi meccanismi della psiche, blandendoli e insieme ritraendosene, Ford non ha saputo (o voluto, appunto) osare, mantenendosi a rispettosa distanza dagli incredibili trucchi della mente, accennando, e nulla più, a mio parere, ai concetti di transfert e di immedesimazione.

6 commenti

  1. Mrs Pignon / 28 Novembre 2016

    Ho avuto la tua stessa sensazione generale sul film. Anche un senso generale di fastidio per l’inettitudine di Edward, vorei dargli 6,5…poteva osare di più su certi tasti,invece è rimasto in questa ampolla ovattata di sentimenti accennati.
    Ciao
    Carmine

    ps: a breve le miei suggestioni

  2. Mrs Pignon / 2 Dicembre 2016

    Arrivano Arrivano……. 😉

  3. Mrs Pignon / 2 Dicembre 2016

    Aspetto tue nuove 🙂

  4. hartman / 21 Dicembre 2016

    Bella analisi @stefania!
    Anch’io ci ho visto molto McCarthy e ho pensato a Lynch (ma poi mi son dimenticato di scriverlo nella recensione 😀 )…
    Ho proprio pensato: chissà una sceneggiatura del genere messa nelle mani di un David Lynch… sarebbe venuta fuori una roba da far venire il mal di testa…
    Per il resto abbiamo parere differente sull’incipit, che io ho francamente trovato di troppo e fuori luogo, almeno la parte dei titoli di testa….
    comunque bellissima recensione, ciao!

    • Stefania / 22 Dicembre 2016

      @hartman: ehi, grazie 🙂
      A proposito dell’incipit, ho apprezzato il senso di astrazione che è capace di generare: dopo lo “stupore” iniziale (non è frequente vedere corpi nudi così ostentati in un film che non sia volutamente incentrato sull’esposizione del nudo), ho iniziato a “vedere” quei corpi informi e segnati come se fossero vestiti della loro nudità: la pelle (quella “brutta” pelle cadente) diventa una specie di vestito (non mi sembra casuale, a proposito di Ford) funzionale ad accentuare il contrasto tra la bellezza degli attori protagonisti e le brutture (fisiche, morali) del contesto in cui si svolgono le vicende, quella del libro e quella “reale”.
      Le ballerine, poi, ricorrono in un’altra sequenza del film (sono all’esterno di un bar): banalmente, “realtà” e finzione si confondono ancora, anche se in maniera troppo poco incisiva, secondo me. Davvero, chissà cosa avrebbe ricavato Lynch dalla stessa materia di origine…

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