Recensione su Il diritto di contare

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Edificante, ma convenzionale / 22 Febbraio 2017 in Il diritto di contare

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Dopo la scorrettezza all’acqua di rose di St. Vincent (2014), Theodore Melfi torna sul grande schermo con un altro film “edificante”, ispirato a un’emozionante vicenda realmente accaduta nella Virginia della segregazione razziale: all’ombra delle missioni aerospaziali della NASA dei primissimi anni Sessanta, si svolgono imbarazzanti vicende di discriminazione basate sulla razza e sul sesso.

Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson sono tre donne afroamericane impiegate, rispettivamente, in qualità di matematica, scienziata e fisica presso l’agenzia governativa spaziale statunitense: in varia misura, le loro conoscenze saranno fondamentali per permettere alla NASA di mandare in orbita i propri astronauti nell’ambito della lunga “corsa al cielo” con l’URSS.

Le protagoniste sono donne di colore: combinazione quantomai infausta: devono lottare contro i pregiudizi di una società biancocentrica che ne sminuisce qualsiasi merito, in virtù del sesso e del colore della pelle.
Questo assunto è sia lo stimolante motore della vicenda che il suo punto debole, perché, come tutte le storie probe costruite in maniera “elementare” su questa falsariga, il film divide nettamente le forze in scena tra buoni e cattivi, senza possibilità alcuna di notare sfumature nelle due fazioni forzosamente definite, secondo cui -semplificando all’eccesso- i buoni sono “interessanti” e i cattivi sono stolidi e, per sottolineare la loro stupidità, costoro hanno sovente espressioni del viso atteggiate al limite dell’idiozia (in questo film, c’è un attore, in particolare, tale Kurt Krause, che si esprime benissimo in quest’arte sopraffina: a fronte di pochissime battute, lo noterete certamente, per via della sua faccia da pugile “suonato”).

Al film di Melfi bisogna riconoscere l’indubbio merito di aver messo in scena un racconto gradevole, tale perché rassicurante nella sua positività e nei suoi numerosi lieti (e documentati) epiloghi.
La resa tecnica è molto buona, supportata da un ottimo reparto tecnico, dai costumi alla scenografia, passando per la colonna sonora originale composta da Hans Zimmer e Pharrell Williams: la storia si sviluppa in maniera ordinata, stimolando una certa passione e affezione da parte dello spettatore nei confronti delle simpatiche e decise protagoniste.

A fronte di questi elementi positivi e del suo impegno nel solco della sensibilizzazione su temi sociali che, ahimé, continuano a essere attuali, si tratta di un film estremamente convenzionale, che, al di là della specifica vicenda, sa di già visto, sia nella caratterizzazione che nella rappresentazione delle situazioni e dei suoi protagonisti.
Involontariamente, una battuta affidata a Octavia Spencer esprime bene l’effetto che questo tipo di prodotto produce: la signora Mitchell (un’acidamente accademica Kirsten Dunst) dice a Dorothy Vaughn (la Spencer) che non ha niente contro di “loro”, intendendo con tale pronome le persone di colore. La Vaughn le risponde (più o meno): “Lo so. So che questo è quello che le piace credere”. Hidden Figures, involontariamente, fa il gioco di tutti i Mitchell del mondo: è un film rassicurante in maniera didattica che, appiattendo per necessità narrative le asperità e la tridimensionalità delle parti in gioco, sembra voler mettere a posto le coscienze, mostrando piccole grandi battaglie con un afflato epico tipicamente americano che, purtroppo, sa di stantia autocelebrazione.

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