LA BATTAGLIA DI ALGERI (1966) di Gillo Pontecorvo

algeriL’Algeria si rende indipendente dalla Francia nel 1962, dopo una guerra partigiana condotta dai moudjahidin.
Gillo Pontecorvo e Franco Solinas iniziano a lavorare al soggetto di un film in cui un ex-paracadutista, già attivo in Indocina e in Algeria, torna in Nord Africa al soldo di una testata giornalistica, con la speranza di fare uno scoop fotografico. Il progetto del film sfuma, allontanando la possibilità di una collaborazione con gli Studios statunitensi che, nel frattempo, avevano candidato Paul Newman e Warren Beatty per il ruolo del protagonista.
Intorno al 1964, Yacef Saadi, comandante militare del Fronte di Liberazione Nazionale per la zona autonoma di Algeri, titolare di una casa di produzione cinematografica, è in Italia: sta cercando un regista italiano disposto a raccontare il conflitto algerino in un film di cui è già pronto il copione. Pontecorvo ridimensiona le mire agiografiche di Saadi e accetta l’incarico, a patto di utilizzare una sceneggiatura completamente nuova.
La pellicola viene imbastita nell’arco di un anno: sei mesi sono destinati alle ricerche, altri sei allo script.
Pontecorvo e il fidato Solinas si recano in Algeria per un mese e, microfono alla mano, appoggiati dei capi militanti del Fronte di Liberazione Nazionale, parlano con quanta più gente possibile, popolani, ex-combattenti, commercianti della casbah. “Nella lotta dell’Algeria per svegliarsi alla storia (…) gli autori vedono un esempio per tutti gli oppressi. In particolare, sembrano loro esemplari i meccanismi della guerriglia messa in opera nella battaglia di Algeri, l’episodio che scelgono di rendere centrale nel loro film” [1].
La sceneggiatura viene riveduta e corretta da Saadi per ben cinque volte: si inizia a girare nell’estate del 1965, con il beneplacito del neo-presidente Boumedienne che mette a disposizione della troupe soldati e armi dell’esercito per le scene di masse e tutte le autorizzazioni necessarie per girare nelle vie di Algeri. Le riprese durano poco più di quattro mesi e l’esperienza, compiuta in condizioni disagevoli, è una delle più elettrizzanti della carriera di Pontecorvo: “la troupe degli italiani è ridottissima, appena nove persone (…); tutti gli altri sono algerini senza alcuna esperienza nel settore, o al massimo con qualche esperienza televisiva (…). Solo il capo-elettricista è italiano, tutti gli altri sono elettricisti che montano gli impianti nelle case. Una vera nave-scuola per tutta la troupe (…). Marcello Gatti, l’operatore, ha una vera vocazione pedagogica, e si forma un piccolo gruppo di lavoro con tre ragazzi algerini che prendono continuamente appunti (…). Uno di quei giovani, Ali Maroc, è oggi uno stimato operatore del cinema algerino” [1].
La conformazione della casbah impedisce l’uso del dolly. Il film viene realizzato con una camera a mano e con un’altra macchina munita di zoom: Pontecorvo riesce a controllare meglio le espressioni dei visi degli attori. Nelle scene di massa in cui compaiono le esplosioni, vengono utilizzate più macchine, fino ad un massimo di dieci.
La vicinanza con i membri della troupe e con gli attori scritturati, tutti dilettanti, rende Pontecorvo e gli altri italiani parte della comunità: la casbah che, inizialmente, incuteva timore, diventa familiare e gli italiani vi circolano senza problemi a qualsiasi ora del giorno e della notte.
“Fin dall’inizio Pontecorvo si convince che il film può avere una sua validità se tutto è sotto il segno della dittatura della verità; se ogni scelta è dettata dal desiderio di creare questo odore di verità. Di qui la scelta del bianco e nero, e in particolare di una fotografia che assomigli alla fotografia dell’attualità – quella cui la gente è abituata dalle telefoto dei settimanali e dall’informazione televisiva” [1].
Il montaggio del film è “rapido e brusco” [1], aderente al tono degli eventi raccontati: si tratta di un “montaggio intellettuale” [1], già sperimentato in Kapò (1959) e reso celebre da La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej Ejzenštejn: “il legame tra una inquadratura e l’altra è spesso costituita da un’idea, da un’associazione simbolica, da un fatto (…) più semantico che sintattico, riferito più al significato che all’ordine del discorso” [1].
La colonna sonora di Ennio Morricone, realizzata in collaborazione con lo stesso Pontecorvo, si adegua al ritmo conferito al film dal montaggio: la dominante musicale della pellicola è la percussione, utile a creare una sensazione di tensione e di angoscia. “Ma il suono che rimane più impresso in chi assiste al film è certamente lo “iu-iu” delle donne algerine (…). Pontecorvo ne fa un uso sapiente, rappresentando con esso la voce solidale di tutto il popolo a sostegno della lotta di liberazione” [1].

[1] Massimo Ghirelli, Gillo Pontecorvo, ed. La Nuova Italia, 1978

NOTE BIOGRAFICHE
Gilberto (Gillo) Pontecorvo nasce a Pisa nel 1919, da una famiglia ebrea della ricca borghesia, quinto di dieci figli: per tradizione, le femmine del clan vengono destinate agli studi umanistici e i maschi a quelli scientifici. “Gillo (…) fino al ginnasio, in una famiglia di secchioni, è considerato un po’ la pecora nera, quello che gioca a tennis” [1]. Colpo di scena: stupisce tutti, terminando due anni di liceo in uno e si iscrive alla facoltà di chimica dell’Università di Pisa appena diciassettenne. Così giovane, non ha ancora il coraggio di sfidare l’autorità paterna e non rivela le sue propensioni letterarie. Passano tre anni, è la vigilia della Seconda Guerra Mondiale: Pontecorvo abbandona gli studi e scappa a Parigi, per frequentare una scuola di giornalismo. “In realtà, (…) gli interessa sul serio, e per la stessa ragione con cui gli interesserà il cinema: come mezzo per avvicinarsi alle cose e alla gente, per cercare quello che non si vede o quello che sta sotto alla superficie visibile” [1].
Diventa corrispondente per l’attuale France Press, per Repubblica e per Paese Sera.
Durante la Guerra, si iscrive al Partito Comunista: grazie al Partito, ritorna spesso e clandestinamente in Italia, in qualità di spia, di staffetta.
Gira l’Italia del Nord: è a Milano, Torino, Genova, diventa comandante della brigata partigiana Curiel, col nome di battaglia di Barnaba, viene elogiato da Giovanni Pesce, comandante dei GAP.
Sopraggiunta la Liberazione, Pontecorvo rimane all’interno delle fila del movimento, ma “finita la guerra, non ha più voglia di fare il lavoro politico” [1]. Resta nell’organizzazione fino al 1949, quando si trasferisce alla Federazione Mondiale della Gioventù a Parigi. Sperimenta le prime esperienze giornalistiche serie, inizia a guadagnare qualche soldo e si dedica allo studio della fotografia. Frequenta le sale cinematografiche parigine: ama i film sovietici, quelli francesi ed il neorealismo italiano. Paisà (1946) di Rossellini è un colpo di fulmine: “decide di piantare tutto, di lasciar perdere il giornalismo e le fotografie; con i pochi risparmi si compra una Paillard 16 mm e comincia a girare documentari (…). L’importante, per lui, è fare quello che veramente sente” [1].
Si trasferisce definitivamente a Roma, dove realizza alcuni documentari su 16 mm, corto e mediometraggi a 35 mm. Con il primo lungometraggio di finzione, Giovanna (1955), ben accolto dalla critica, inizia la proficua collaborazione con lo sceneggiatore Franco Solinas.
Nel 1959, realizza Kapò, candidato agli Oscar per il Miglior Film Straniero.: “il successo inaspettato lo meraviglia e lo diverte” [1]. Riceve trentadue proposte di film, ma le rifiuta tutte.
Nel 1963, prepara L’aldilà, un programma per la RAI, poi non realizzato.
Gira La battaglia di Algeri (1966), Leone d’Oro a Venezia e candidato a due premi Oscar: la guerra di indipendenza algerina, soggetto del film, ne impedisce una regolare distribuzione in Francia.
Realizza Queimada (1969) con Marlon Brando e Ogro (1979) con Gian Maria Volonté.
Nel 1986, istituisce a La Maddalena il Premio Solinas, dedicato all’amico sceneggiatore scomparso nell’82.
Dal 1992 al 1996 è direttore della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Nel 2001, partecipa al documentario collettivo Un altro mondo è possibile sul G8 genovese.
Insieme al figlio, nel 2005, realizza un film istituzionale sulla storia dell’INPS.
Muore nell’ottobre 2006.

[1] Massimo Ghirelli, Gillo Pontecorvo, ed. La Nuova Italia, 1978

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A cura di Stefania

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