PERSONA (1966) di Ingmar Bergman

persona Afflitto da una profonda depressione psichica, Ingmar Bergman si rifugia sull’isola di Fårö: durante la convalescenza, imbastisce una traccia sommaria di Persona.
Nell’estate del 1965, prima della malattia, Bergman stava dedicandosi ad un altro lavoro, Maniskoatarna, forse traducibile come I démoni: “I personaggi di quel film mai realizzato erano tormentati da problemi intellettuali e ancorati alla loro carne all’esperienza dell’infanzia, a coloro che avevano influenzato la loro crescita, alle circostanze in cui la vita li aveva gettati: una specie di amaro esorcismo traumatico il quale (…) riemergeva dai più oscuri e segreti ambulacri del cuore umano” [1].
La conformazione geologica dell’isola suggerisce un distacco quasi mistico di Bergman dalla vita condotta al di fuori di Fårö: “Capitai in questo paesaggio (…), con la sua assenza di colori, la sua durezza e le sue proporzioni straordinariamente ricercate e precise, dove si ha l’impressione di entrare in un mondo che è esterno, e del quale non siamo che una minuscola particella, come gli animali e le piante. Come sia accaduto non lo so, ma qui ho messo le radici e ora credo che la mia vita abbia nuovamente delle radici” [2].
Il titolo definitivo della pellicola richiama la locuzione latina dramatis persona che ha l’ambivalente significato di maschera e personaggio: la scelta del termine richiama precisamente il discorso bergmaniano sul concetto di individuo e su quello di attore. Bergman riversa in questo lavoro “tutto l’odio-amore che (…) ha sempre provato per i suoi attori, e specialmente per le sue attrici. Li ha usati, le ha usate sempre come mezzi, come strumenti. Ha preteso da loro ogni sorta di finzione, di metamorfosi. Ha trasfuso in loro la sua personalità (…)”. [3]
L’apertura del film è caratterizzata da immagini apparentemente in libertà, legate dal tema del cinematografo: una pellicola che scorre, una sequenza tratta da un film muto, un Cristo inchiodato alla croce, l’immagine di un bambino che tenta di raggiungere una donna, forse la madre, il sacrificio di un agnello. Pare, non a caso, che il primo titolo ipotizzato per la pellicola fosse proprio Cinematografo, tanto che “[Bergman] disse: la sola cosa che non si può negare al mio film è che doveva essere un film” [4].
Questo dettaglio, che ritorna nella parte centrale e in quella finale della pellicola, quando essa, per esempio, sembra dissolversi, dichiara fin dall’inizio la varietà e la conseguente complessità delle chiavi di lettura del film: “Bergman ci raccomanda (…) di prendere il film (…) non come riproduzione della vita, [piuttosto si prodiga in] un’esortazione a non prendere in considerazione la sua opera in chiave veristica. Ma ci avverte anche che il film si può leggere in diversi modi, senza che l’uno escluda l’altro. Più precisamente, in senso estetico (il cinema cinema), in senso spiritualista (l’agnello e il Cristo), in senso psicanalitico, o quanto meno psicologico o psichiatrico (il bimbo)” [3].
L’interpretazione estetica “è quella più semplice, elementare” [3]: il godimento estetico derivante dalla visione del film è, letteralmente, sensibile. “È il risultato di un paziente lavoro di approfondimento e di rifinitura. È uno di quei film che indicano ai registi vie nuove per tentare nuove possibilità di espressione” [5].
La chiave di lettura legata alla religione è quasi criptica, “cifrata” [3]: in questo senso, Persona pare il naturale prolungamento de Il silenzio (1963). Anche in questo film, per esempio, una delle protagoniste si chiama Alma che, nel latino classico, significa “colei che dà la vita” e che, nel latino volgare, corrisponde ad “anima” che, guarda caso, è anche l’ultima parola con cui si conclude, per l’appunto, Il silenzio. La componente carnale, evidenziata, per esempio, dall’esposizione dei corpi al sole, dal crudo racconto di Alma di una sua torbida esperienza sessuale, e quella spirituale si contrappongono: “soccombe qui l’anima di fronte all’invadenza del corpo, anche se muto?” [3]. Bergman pone una questione esistenziale che non intende legarsi ad alcuna ideologia specifica, poiché lo smarrimento dell’uomo non può essere ricondotto ad alcuna posizione definita.
“Bergman ha fondato l’incomunicabilità interpersonale, l’alienazione psicologica, sull’alienazione dell’uomo nella divinità, in altri termini ha saldato insieme la solitudine psicologica a quella metafisica, facendo della seconda il fondamento della prima. (…) [L’]affermazione-negazione di un Dio silenzioso che, forse, potrebbe soltanto coincidere con la nostra angoscia ma che, nello stesso tempo, è l’inizio e l’esito di ogni crisi spirituale, risolvibile ma non esauribile in termini di ragione e di psicologia, prende vita in un’opera stilisticamente audace” [6].
La terza chiave interpretativa si basa sul conflitto tra essere e sembrare: da una parte, Bergman sfrutta il concetto psicanalitico di maschera, applicandolo allo sdoppiamento del personaggio femminile. Dall’altro specula in maniera figurata sul ruolo dell’attore. “Non a caso la crisi esistenziale di una persona coincide con quella di un’attrice che, nel bel mezzo di una recita, si chiude in un ostinato mutismo e prova semplicemente una gran voglia di ridere” [3].

[1] Jörn Donner, Il volto del diavolo, ed. Cineforum, 1966
[2] Intervista rilasciata a Jörn Donner, in Epoca, 1971
[3] Sergio Transatti, Ingmar Bergman, ed. Il Castoro Cinema, 1993
[4] Riportato senza fonte in Ingmar Bergman, ed. Il Castoro Cinema, 1993
[5] Liliana Cavani, in Nostro tempo, n.2, 1967
[6] Leandro Castellani, Rivista del cinematografo, n.2, 1967

NOTE BIOGRAFICHE
Ingmar Bergman nasce a Uppsala nel luglio 1918, in una famiglia dominata da preti e contadini. La sua infanzia non è serena, anche per via dell’inflessibilità del padre, un pastore luterano, e dell’instabilità emotiva della madre. I Bergman si trasferiscono a Stoccolma e le acredini interne aumentano, portando il fratello maggiore di Ingmar a tentare il suicidio.
Dopo il servizio militare, Bergman si iscrive all’università, laureandosi in Storia della Letteratura con una tesi su Strindberg. Inizia ad occuparsi di teatro, lavorando in un centro per la gioventù e nel teatro studentesco.
Quando i genitori scoprono la sua convivenza clandestina con una giovane attrice, la loro reazione è feroce: Bergman interrompe per quattro anni la frequentazione della casa paterna.
Inizia a lavorare con attori professionisti, organizza spettacoli per bambini, parte per il sud del Paese per una tournée, insieme ad una nuova compagna.
Assunto come assistente alla regia e poi come suggeritore all’Opera, raggiunge una certa tranquillità personale ed economica: inizia a scrivere, producendo in breve tempo dodici drammi ed un’opera. Nel 1942, viene messa in scena La morte di Kasper: è la svolta, viene assunto dalla Svensk Filmindustri. Scrive sceneggiature, dialoghi, canovacci di film. È segretario di edizione nell’adattamento per il grande schermo di uno di essi: frequenta per la prima volta un set cinematografico.
Nel 1943, sposa Esle Fischer, ballerina e coreografa. È il primo dei suoi cinque matrimoni, da cui avrà, in totale, nove eredi.
Viene nominato direttore dello Stadtsteater di Helsinborg, il più antico teatro comunale svedese e continua a produrre manoscritti cinematografici.
Il primo film diretto e sceneggiato da Bergman, Crisi (1944) è un fiasco. Anche il successivo Piove sul nostro amore (1946) non ha buoni riscontri. Nel 1946, Bergman si trasferisce a Goteborg, dove viene nominato primo regista del teatro cittadino. Dirige opere teatrali ed un paio di film.
Realizza Un’estate d’amore (1951), “il primo [film] in cui Bergman dimostra di avere la piena padronanza delle sue possibilità espressive” [1].
In seguito ad uno sciopero, Bergman viene licenziato dalla Svensk Filmindustri.
Divenuto regista al Malmő Stadsteater, nel 1953, lancia alcuni degli attori che diventeranno ricorrenti nei suoi successivi film, come Bibi Andersson e Max Von Sydow.
Bergman alterna gli inverni teatrali alle estati cinematografiche: si rivela all’Europa con Sorrisi di una notte d’estate (1955), presentato a Cannes. L’adattamento di una ballata medievale svedese, La fontana della vergine (1960), gli vale il suo primo Oscar.
Stacca per un po’ dal mondo del cinema e, di stanza a Parigi e Londra, organizza alcune tournée teatrali.
Da Il settimo sigillo (1957) in poi, inaugura la tematica religiosa al centro di molti suoi lavori che si esprimerà esplicitamente con la trilogia sul silenzio di Dio (la “ricerca vana di un paradiso metafisico” [1]) aperta da Come in uno specchio (1961), altro premio Oscar come miglior film straniero.
Acquistata l’isola di Fårö, vi realizza i film della cosiddetta tetralogia (Persona, l’horror psicologico L’ora del lupo, La vergogna, Passione: “descrizione impietosa dell’inferno che c’è sulla Terra” [1]) e dove, in breve tempo, organizza una piccola città del cinema. Realizza un’ultima pellicola per la Svensk Filmindustri con cui, nel frattempo, aveva riallacciato i rapporti e, contemporaneamente, si avvicina al mondo della televisione con un film autoprodotto, Il rito, presentato nel 1969 alle reti televisive di Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca.
Grazie al successo statunitense de L’adultera (1971), un film documentario girato sull’isola, la fama di Bergman oltreoceano si consolida definitivamente.
Dal 1976, è proprietario di una casa di produzione, la Cinematograph AB, messa in piedi con l’aiuto dell’ultima moglie, Ingrid von Rosen. Il rapporto con la televisione si fa più stretto e, con l’adattamento del mozartiano Il flauto magico (1975) prima e con Il ballo delle ingrate (1976) poi, Bergman corona il desiderio di realizzare un film-opera.
Nel 1977, accusato di frode fiscale e profondamente scosso e depresso dalla vicenda, Bergman viene ricoverato per alcuni mesi in quel reparto psichiatrico di un ospedale di Stoccolma che comparirà in uno dei suoi ultimi lavori realizzati per la televisione svedese, Vanità e affanni (1997).
Lavora in Germania, dove realizza alcune pellicole: nel 1981, inizia a lavorare a Fanny e Alexander (1982) che, nel 1984, si aggiudica quattro premi Oscar. Nonostante la candidatura alla regia, Bergman si vede negare il riconoscimento personale.
Collabora con Liv Ullman, una delle sue attrici predilette dedicatasi alla regia, continua l’attività teatrale e realizza ancora alcuni lavori televisivi.
Muore a Fårö, il 30 luglio 2007.

[1] Sergio Transatti, Ingmar Bergman, ed. Il Castoro Cinema, 1993

Commenta nel gruppo INTOLERANCE

A cura di Stefania