17 Luglio 2013 in Sugar Man

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Un regista svedese ma mezzo algerino che gira la bio di un cantante americano ma mezzo messicano, un quarto nativo americano e uno europeo, che però era famoso in Sud Africa. Chiaro no? E ci vince pure un Oscar (miglior documentario, anno boh, credo lo scorso), pur avendo finito i fondi durante la lavorazione e terminato le riprese con l’iphone e una app da tamarri sedicenni. Eppure la storia di per sé è formidabile, e una volta che si riesce a cucire il film intorno, con filmati d’epoca e altri finto d’epoca e animazioni, il gioco è fatto. Inizio anni ‘70, Detroit già in sfacelo (ma è sempre in sfacelo Detroit? Ma nevica sempre a Detroit? Ma che posto di me**a deve essere Detroit?) tale Sixto Rodriguez canta per strada e nei bar, viene notato, incide due album. Li compra: nessuno. Rodriguez smette e passa la sua vita a fare il carpentiere.
Nel frattempo.
Nel frattempo però prima uno, poi entrambi questi album sono arrivati per vie traverse in Sud Africa. Dove, con i loro testi antisistema, hanno avuto un successo enorme/colossale. La colonna sonora delle incipienti proteste contro e poi ribaltamento dell’Apartheid, è più famoso di Elvis, e Bob Dylan, e Asterix messi insieme. Sì, Asterix non c’entrava un ca**o.
Sixto del suo successo nell’altro emisfero sa: niente.
Là sotto di chi sia Sixto sanno: zero altrettanto. Chi è, dov’è, perché.
Leggende metropolitane sul fatto che lui si sarebbe suicidato sul palco durante un concerto, chi dice sparandosi in testa, chi cospargendosi di benzina e urlando L’ACCENDIAMOOOO!
Un critico musicale e un venditore di dischi sudafricani si mettono a cercarlo (mitici come al solito gli accenti SudAf), con tanto di sito web e telefonate dall’altra parte del mondo. Lo trovano, incredulità e commozione. Lo invitano a una tournée in SudAf, dove Sixto trova le limousine ad aspettarlo e i manifesti per strada di se stesso e le folle in visibilio. Lui che tirava su i muri.
Lucciconi, lui, il ritrovamento è lasciato in sospeso e nell’aria prima di planare sulla storia, e il Sixto redivivo gira per la sua città bianca di neve come un corvaccio di nero vestito/piumato, un becchino che incespica nella tormenta bianca con sullo sfondo una canzone triste. Tante canzoni tristi. Perché lui ha stile, era muratore ma laureato, e andava a lavorare col tuxedo. Fonziano un HEY!
In tutto ciò aiuta il fatto che le canzoni siano tutte molto molto belle, testi poetici, canto dei diseredati e loser e tristi e innamorati perduti. Mai più senza, procurarsi tutto subito.
“Lui era molto meglio di Bob Dylan”, dicono in coro tutti i suoi ex produttori intervistati.
E perché non ha avuto successo?
“Boh!”, rincara il coro.
Ma alla fine l’ha avuto, nonostante avesse buttato nel cesso la carriera musicale e scelto la vita, le figlie, lo spaccarsi la schiena, gli è ritornato come un booooomerang (il film tralascia di dire che, circa negli ‘80, Rodriguez aveva avuto un po’ di successo in Aussieland), quella consacrazione che magari le persone credono di meritare per tutta la vita e per 99 su 100 non arriverà mai.
In questa storia assurda e irripetibile (anzi no, in Nord Korea può ancora succedere) e reale, dove il sogno americano si declina nel percorso di vita di questo antieroe qualunque, e lo fa per contrasto. Tutto talmente diverso che succede. Unbelievable (ma detto alla SudAf)!

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