Cin cin / 3 Dicembre 2016 in Maquinaria Panamericana

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

In una fabbrica di apparecchiature edili (credo, insomma cose grosse e di ferro) quotidiano si ripresenta il tran tran. Ah siamo in Messico, ah fuori c’è una città caotica e rumorosa che sullo sfondo resta, simboleggiata da macchine che sfrecciano in secondi piani. Dentro invece sembra esserci tutto il meglio della vita di fabbrica e d’ufficio, con pause caffè e feste di compleanno. Epperò si scopre che il padrone è morto, nel suo appartamente lì nella fabbrica. Il direttore generale, che l’aria di essere una cima non ha, rivela che l’azienda era in crisi da anni, e il paròn da le bele braghe bianche calava le palanche di tasca sua per tutti. Che fare? Il DG ha st’idea, chiudiamoci dentro e cerchiamo i conti per salvare l’azienda e farla andare avanti. Ma quali conti? Non importa, tutti, i conti. Convinti quasi tutti da questo ragionamento obiettivamente abbastanza fallace, sbarrano porto e portoni, e rivoltano tutto. Intanto il cadavere del paròn è composto e lasciato sulla sua scrivania, i magazzinieri preparano una roba tipo con la benzina e parte una festa, sul finir della quale è un miracolo che non siano tutti morti anziché solo sbronzi, visto quel che si è bevuto. Il grottesco schiuma e monta, in un’insensatezza un po’ priva di scopo, si accumula. Restano personaggi senza un motivo, tipo il trio che sembrano tre picchiatori ma non risolvono mai niente e non si capisce che ruolo avessero, qualcuno riuscito che tiene su la baracca, come il vecchio che clanga (omg! Clanga!) col bastone di ferro e ha il volto più bizzarro del mondo, e infine il si scopre figlio non riconosciuto del boss, che lavorava come apriporta. Splendido mestiere, è meglio del fermacarte. La società è instabile e perdiamo tutti il lavoro, l’irrazionale è una risposta ma non si vede ben dove (o contro cosa) conduca.

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