20 Settembre 2014 in E Johnny prese il fucile

Diretto dallo sceneggiatore Dalton Trumbo, basato sul romanzo omonimo di D. Trumbo stesso, il film di guerra (ma non solo) ribalta i canoni del genere, divenendo così un prodotto antimilitarista che lascia ampi spazi di riflessione sul senso della vita, della morte e sull’esistenza di Dio. Opera prima del regista nonché unico prodotto girato dal nostro, “Johnny Got His Gun” è un incubo disturbante riportato in pellicola. Protagonista dell’opera è un soldato che, in seguito allo scoppio di una granata, perde gambe, braccia e parte del viso. Soldato semplice durante la prima guerra mondiale, lo troviamo legato ad un lettino di un imprecisato ospedale militare; ciò che resta di lui è il busto, di umano gli rimane solo il pensiero.
Se all’inizio il protagonista reputa poco grave la situazione, ben presto si renderà conto della sua reale condizione.

Costretto a vivere in un microcosmo, una stanza chiusa, attaccato ad un respiratore e a condividere un tempo infinito con gli ufficiali e le infermiere, Joe impara a comunicare ricorrendo all’alfabeto morse. Intanto però passano gli anni e i sentimenti negativi lo attanagliano. Da un lato vorrebbe morire, gli manca l’amore lasciato a casa anni dietro, dall’altro in lui albeggia la voglia di essere mostrato nei “freak show” del Paese. Vorrebbe far vedere a tutti gli orrori e la follia della guerra. Il punto è che le sue “grida di disperazione” non verranno ascoltate. Il film dunque oltre a muovere la mano in modo pesante contro la guerra, pone l’accento su temi quali l’eutanasia e di conseguenza una critica a chi tiene in vita una persona solo per il progresso della medicina. Joe non viene trattato con umanità, per i dottori dell’ospedale è un esperimento su cui fare degli studi, è un essere da tenere nascosto affinché nessuno mai possa vedere i mali della guerra.
Non aspettatevi l’azione, aspettatevi invece momenti strazianti nella testa di una persona che non ha più né vista, né olfatto, udito o parola. Il regista non punta la cinepresa sul volto segnato dal trauma, non c’è spettacolarizzazione del dolore, non stiamo vedendo o vivendo una puntata di Pomeriggio Cinque; nel film finzione e realtà si fondono, lo spettatore si ritrova così nei sogni e nei desideri prodotti dalla fantasia di Joe. Il film è pieno di simboli, dalle conversazioni con Gesù Cristo (uno dei momenti “colorati” all’interno di un film in bianco e nero) alle visioni terrorizzanti dei ratti sul letto del protagonista, passando per i dialoghi/ricordi con il padre morto.
Tra l’altro, Gesù ha un ruolo fondamentale; egli è una specie di guida che però pecca nel non rendersi conto della situazione (1), un amico che dà consigli ma anche un cuscino su cui sfogare la rassegnazione di un gruppo di soldati che probabilmente è già morto. La figura di Cristo è al di là del tempo, incarna quella speranza che dovrebbe essere l’ultima a morire ma che, alla fine, muore.

Non c’è retorica, ci sono solo lacrime ed indignazione, in un film che della pietà fa la sua essenza.

Note del Don:
(1) Gesù suggerisce a Joe di scacciare i topi che sogna con le mani.. ed effettivamente Joe non ha più le mani.

DonMax

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