Il fantasma che balla / 20 Agosto 2015 in Bota Café

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Orizzonte piatto e brullo, montagne pallide sullo sfondo. Non una pianta, alti pali della luce. In questo paesaggio a metà tra il niente e la luna spunta, come una palafitta, il Bota Cafè. Che si caratterizza per il fatto di essere sopraelevato (una volta qui era tutta camp… ehm palude, ora in secca) e di avere una Panda sul tetto. Una Panda? You betcha, che il proprietario del bar, Beni, usa per scopare con la sua squinzia, Nora. Perché è invece Juli, di Beni cugina, a tener su la baracca, aprechiude gestisce fa. Intorno (cioè a 10 km, perché il vicino non esiste) degli operai stanno completando i lavori per un’autostrada, agli ordini di un italiano (parliamo di un film coprodotto ITA-ALB-Kosovo), e sempre intorno si aggira un personaggio alla ricerca per la palude dei cadaveri degli oppositori del regime comunista di 30 anni fa. Il quale aveva deportato, quando non seppellito, gli oppositori in quel luogo di vuoti esistenziali, di fatto annichilendoli. I tre personaggi sono discendenti dei deportati di allora, il resto non è cambiato granché, ci sono 4 palazzoni di cemento, qualche strada è persino asfaltata.
Con queste premesse nessuno ha alcuna prospettiva – nemmeno si capisce bene il senso di un bar in mezzo al niente come di tante altre azioni dei tre – , se non una fuga a cui risolversi è difficile. La si vagheggia e sogna, e lascia lì. O forse la mancanza di prospettiva dovrebbe bastare a giustificar tutto, mentre a poco a poco riemerge la memoria del passato, incarnata dall’anziana nonna malata di Juli, un fango che ai piedi tutti prende e non lascia. Juni alla fine si salva (boh, si salva?) essendo l’unica riuscita a restare umana, dopo che il passato le è riportato innanzi dall’omino cercacadaferi, facendole scoprire le meschinità e compromessi di varia natura che gli abitanti di un posto così caruccio devono accettare. Me ne vado a Tirana! Oh.

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