Il punto di vista é limite / 16 Maggio 2016 in Above and Beyond

In celebrazione della fondazione dello Stato d’Israele il 12 maggio 1948, la Fondazione Dreyfus porta in Italia un documentario prodotto da Nancy Spielberg che descrive la nascita di Israele attraverso vari protagonisti, soprattutto piloti americani ebrei (ma anche non), che prestarono i loro servizi per la difesa della neo-nazione dalle minacce degli stati turchi, che non accettarono di buon grado la decisione presa il 29 novembre del 1947 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che decretava, per quanto riguarda la spartizione del territorio palestinese, la costituzione di uno stato ebraico (Israele appunto) e di uno turco. In brevissimo tempo gli ebrei si trovarono a combattere contro eserciti attrezzati ed enormemente meglio equipaggiati provenienti dagli stati come l’Egitto e l’Iraq, ma erano sguarniti persino di una forza aerea, che si costituì all’alba del conflitto arabo-israeliano, ma che contava in principio solo tre aerei di bassa affidabilità.
“Above and beyond” racconta una storia di guerra e di sentimento ebreo, attraverso le parole e i volti dei piloti che presero parte alla difesa dello Stato d’Israele. Finita la seconda guerra mondiale, molti erano i combattenti (soprattutto di religione ebrea) che non videro l’ora di entrare in azione, e allo stesso modo molti erano i “rifiuti” meccanici, quali aerei tedeschi o cecoslovacchi che furono venduti a Israele per intraprendere la propria battaglia. A riguardo rende molto bene, nel docufilm, l’immagine del pilota ebreo con uniforme e aereo tedesco che vola sopra il deserto verso le linee dell’esercito egiziano. C’è un problema però nel film della Grossman, e che riguarda la sua natura documentaria. L’essere una narrazione a senso unico, di parte se vogliamo, inibisce quella ispirazione alla documentazione, all’informazione, che è alla base di ogni buon resoconto onesto. Il racconto è creato da ebrei, su bocche di ebrei per gli ebrei, e questa autoreferenzialità si chiude in se stessa celebrando il mito del patriottismo, della religiosità intesa divisivamente e anche, a tratti, della guerra come trionfo. Il punto di vista è unico e selettivo, e in un documentario tale caratteristica è sempre una limitazione. Certo, abbiamo pure un resoconto storico comunque approfondito, anche se discontinuo e rarefatto, ma questa sua vena autocelebrativa finisce per creare una contrasto anche nello spettatore, contrasto voluto in primis dal film, che distrattamente non si accorge della fastidiosità del suo compiacimento. Un prodotto quindi che, nonostante l’ottima fattura, (s)cade nella limitatezza del suo unico punto di vista.

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