Un trattato sul vittimismo / 18 Maggio 2017 in Sognare è vivere

Sono entrata con le più cattive intenzioni nella sala. Ero prevenuta. Mi aspettavo che il primo lungometraggio di Natalie Portman le assomigliasse: per quanto l’abbia sempre trovata innegabilmente bella e un’attrice niente male, è sempre stata circondata da un fastidioso alone di presunzione che non trovo giustificabile in nessuno modo. Eppure sono entrata in quella sala con un solo grande desiderio: essere smentita. Avrei voluto alzarmi e andare verso casa pensando di essermi sbagliata, di aver pensato male troppo presto. Purtroppo, come era facilmente prevedibile, sono entrata nel cinema prevenuta e sono uscita rattristata, annoiata e, lo ammetto, di corsa per allontanarmi da Sognare è vivere il più velocemente possibile. Mi si potrebbe dire di non averlo capito, di non saper apprezzare il concettualismo, l’altezza di pensiero e artistica con il quale l’attrice ha affrontato una prova di triplice difficoltà (ha scritto la sceneggiatura, ha realizzato la regia e ne è la protagonista femminile). Potrebbe essere vero, ma solo in parte. Non c’è poi molto da capire. Sognare è vivere è un trattato sull’ebraismo come vittimismo, come popolo e personale. Basato sui ricordi di Amos Oz, scrittore cresciuto a Gerusalemme negli anni precedenti alla nascita dello stato di Israele con i suoi genitori: il padre Arieh, studioso e intellettuale, e la madre Fania, sognatrice e poetica (Portman). Quella che ci viene raccontata è la storia di un tentativo di pace dal punto di vista – elemento che ho effettivamente apprezzato – del pacifismo stesso, della fratellanza, non della sopraffazione. Tentativo apprezzabile, insomma, se non fosse che ciò in cui si scade è il buonismo più smielato (indicativo il ragazzino ebreo che dice alla bambina musulmana: “possiamo vivere come fratelli su questa terra, c’è posto per entrambi”), quello che, volente o nolente, fa alzare gli occhi al cielo. Questo conflitto si riflette sulla vita privata di Amos e della famiglia, alle prese con le difficoltà comuni (la povertà, la mancanza di cibo, la guerra) e difficoltà intime e personali. Il significato che ne scaturisce è, come già detto in precedenza, un collegamento che non è peccato affrontare, ma che è già stato esplicato più volte e, credetemi, molto meglio di così. Fa parte della cultura ebraica vivere le difficoltà della comunità come proprie, sentirsi discriminati (spesso a ragione, ovviamente) a causa della propria etnia, ma non serve comunicarlo in una cinematografia lagnosa e, in questo preciso caso, spesso eccessivamente concettualista. Bella, certo, ma tutto lì: è vuota.

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